9 Luglio 2009 - ordinanza - Tribunale di Milano - giudice per le indagini preliminari dr.ssa Panasiti* (costituzione di parte civile nei confronti dell’ente - ammissibilità limitatamente alla persona offesa dalla condotta attribuita all’ente - legittimazione esclusiva della Pubblica Amministrazione a costituirsi parte civile nei confronti dell’ente in relazione al reato di corruzione - legittimazione dell’ente imputato di illecito amministrativo ex D.Lgs. 231/01 a costituirsi parte civile nel procedimento nei confronti degli apicali che hanno determinato con la loro condotta l’imputazione a carico dell’ente - esclusione - azionabilità della pretesa risarcitoria dell’ente in sede civile se e quando ne risulti esclusa la responsabilità ex D.Lgs. 231/01 per le condotte delle persone fisiche - legittimazione di azionisti a costituirsi parte civile nei confronti dell’ente in quanto imputato di illecito amministrativo D.Lgs. 231/01 - esclusione della legittimazione attiva della parte civile
(omissis)
Nell'esame delle numerose tematiche devolute dalle parti in punto di costituzione del rapporto processuale occorre procedere unicamente avendo riferimento al tema del processo come delineato dalla contestazione elevata dai Pubblici Ministeri per quelle che sono considerazioni articolabili allo stato degli atti sul tema così delimitato, salvo poi pervenire in sede decisoria ad eventuali ulteriori indicazioni, man mano che le singole posizioni nel procedimento dovessero risultare differentemente individuate. Si procederà di seguito dapprima alla individuazione dei criteri generali che presidiano – ad avviso di questo decidente – la valutazione delle tematiche devolute; successivamente alla valutazione delle specifiche pretese articolate.
Nella fase di costituzione del rapporto processuale un numero considerevole di persone fisiche, oltre alle persone giuridiche di cui si dirà in seguito, hanno richiesto di costituirsi parte civile. Indipendentemente dalla articolazione della domanda come formulata, che sarà valutata in seguito, occorre tracciare delle linee guida di carattere generale che attengono, in una fase di prima delimitazione, alla tematica afferente la individuazione dei soggetti legittimati alla costituzione di parte civile.
Primo presupposto per la legittimazione alla costituzione di parte civile è la individuazione del soggetto (sia esso persona fisica che giuridica) al quale il reato abbia cagionato un danno. Ai fini dell'esercizio della azione civile occorre pertanto, quale primo presupposto, la c.d. legittimatio ad causam, che si identifica normalmente con la titolarità del diritto sostanziale in capo alla persona alla quale il reato abbia cagionato un danno, che costituisce, pertanto, il presupposto per la costituzione di parte civile.
La legitimatio ad causam, sia attiva che passiva, nella azione civile ospitata nel processo penale va individuata, del pari alle norme che la disciplinano nel processo civile, sulla scorta della domanda.
Come sopra accennato, nel procedimento penale la domanda principale è costituita dalla richiesta di rinvio a giudizio del P.M. che delimita l'oggetto del procedimento e costituisce, mutuando la disciplina e la terminologia civilistica, appunto la domanda principale articolata dall'Organo preposto all'esercizio della pretesa punitiva dello Stato. Pertanto, indipendentemente dal fatto che la richiesta di rinvio a giudizio del P.M. risulti accoglibile o meno, con valutazione che sarà effettuata al termine della udienza preliminare, in relazione alla fondatezza delle pretesa punitiva articolata, è a quanto indicato nella richiesta di rinvio a giudizio ed alle singole imputazioni che deve aversi riguardo al fine di individuare la sussistenza della legitimatio ad causam attiva e passiva.
La "legitimatio ad causam", attiva e passiva (che si ricollega al principio di cui all'art. 81 c.p.c., inteso a prevenire una sentenza "inutiliter data" Cass., sez. 3^ civ., 1 marzo 2004, n. 4121, m. 570689), attiene infatti all'astratta possibilità che le parti del giudizio siano i soggetti cui si riferisce la norma invocata: richiede perciò, secondo l'interpretazione di tale norma, la "verifica, secondo la prospettazione offerta dall'attore principale del procedimento penale, il P.M., della regolarità processuale del contraddittorio". Pertanto, è proprio al tema delimitato dall'attore principale del procedimento penale ed alla natura di tale tema che si deve avere riguardo nella valutazione delle domande accessorie di tipo civilistico eventualmente articolate – ed ospitate – nel procedimento penale.
Con riguardo a tale prima delimitazione del tema della domanda occorre – quindi – procedere ad una preliminare astratta valutazione delle domande accessorie di tipo civilistico condotta unicamente con riguardo alla domanda principale articolata dal P.M.. Più chiaramente occorre valutare la legitimatio ad causam alla luce della natura del reato contestato con la domanda articolata dal P.M. e dell'oggetto della tutela individuato dalla specifica norma che si assume violata, elementi quelli anzidetti che descrivono ed individuano concretamente il titolare della pretesa civilistica risarcitoria.
Tale primo criterio di valutazione conduce, già in astratto, ad escludere ogni legittimazione dei soggetti privati all'esercizio di una pretesa risarcitoria qualora articolata con riferimento a contestazione di reato che non configura la lesione di un bene giuridico tutelabile da parte di un singolo soggetto privato, compromettendo il reato interessi la cui tutela è rimessa alla Organizzazione Statuale o a singoli e specifici apparati di questa.
Va così che tutta una serie di reati, quali la associazione per delinquere ovvero la corruzione, vedono la loro offensività individuata rispettivamente nell'ordine pubblico ovvero nel regolare esercizio dell'azione amministrativa, con conseguente individuazione della persona offesa dal reato rispettivamente unicamente in capo alla Organizzazione Statuale (si vedrà dopo impersonata da chi) ed alla Pubblica Amministrazione.
Per quanto concerne, in particolare, il delitto di associazione per delinquere, trattasi, come è noto e come è pacificamente reiteratamente ricordato dalla giurisprudenza del Supremo Collegio, di delitto contro l'ordine pubblico, che si individua e concretizza non già unicamente in una generica e riduttiva tutela della pubblica tranquillità o della sicurezza dei cittadini, ma anche nel rispetto di tutti quei principi fondamentali sui quali si fonda la convivenza civile e l'ordinato assetto della società. Tale delitto si individualizza e concretizza, pertanto, unicamente nell'Ente preposto alla sua tutela, che coincide esclusivamente con la Organizzazione Statuale. In nessun caso però può essere ritenuta persona offesa o comunque danneggiata dal delitto di associazione per delinquere la persona fisica o, comunque la soggettività – sia essa fisica o giuridica – privata, per la impossibilità di individuare in capo ad una soggettività privata, diversa da quella rappresentata dalla Organizzazione Statuale, legittimazione alla tutela degli interessi specificamente inerenti l'ordine pubblico, per la impossibilità di individualizzare gli interessi medesimi in capo a tali soggettività.
Parimenti da escludere è la legittimazione all'esercizio dell'azione risarcitoria civile in capo al privato in riguardo al delitto di corruzione. Si insegna in giurisprudenza (v. da ultimo Cass. Pen. Sez. VI, n. 3388 del 04/12/2002), in maniera costante, che persona offesa del delitto di corruzione propria è soltanto la Pubblica Amministrazione, interessata a che i propri atti non siano oggetto di mercimonio. Il concetto di P.A., di volta in volta, sarà individuato oltre che nella organizzazione Statuale tutta, talora, a seconda della tipologia concreta di condotta, nella singola e specifica Amministrazione preposta alla tutela del segmento di organizzazione statuale leso, compromesso o messo in pericolo dalla specifica condotta contestata. Solo limitatamente al delitto di corruzione in atti giudiziari di cui all'art. 319 ter c.p., fattispecie ritenuta autonoma rispetto alla fattispecie di corruzione di cui agli artt. 318 e 319 c.p. , la giurisprudenza del Supremo Collegio, ripercorrendo già la stessa formulazione della norma, ha individuato la qualifica di persona offesa e, quindi, la legittimazione alla costituzione di parte civile in capo al soggetto privato danneggiato dalla decisione giudiziaria frutto di accordo corruttivo, indicando che "L'accertamento in sede penale di un'intesa corruttiva, intercorsa tra una parte di un giudizio civile ed il giudice di quel giudizio, costituisce titolo della domanda risarcitoria proposta ex art. 185 cod. pen., per mezzo della costituzione di parte civile, dalla parte che ha subito gli effetti della corruzione, e comporta la condanna del corruttore e del giudice corrotto al risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, cagionati dal reato di corruzione" (Cass. Pen. Sez. 6, sentenza n. 33435 del 04/05/2006).
Per quant'altro, tutte le altre fattispecie di corruzione, e, per quello che interessa il presente giudizio, il delitto di corruzione di cui all'art. 319 c.p., nonché le fattispecie di cui agli artt. 321, 322, 322 bis c.p., sono state interpretate dalla giurisprudenza del Supremo Collegio, in conformità peraltro alla lettera della norma ed alla sua collocazione sistematica, quale delitto contro la Pubblica Amministrazione di natura monoffensiva, con conseguente individuazione della qualifica di persona offesa dal reato unicamente in capo alla P.A.
Sia per il reato di associazione per delinquere che per quello di corruzione, i difensori della costituende parti civili hanno insistito nell'indicare che, al di là ed indipendentemente dalla qualifica formale di persona offesa, che va riconosciuta in capo alla Organizzazione Statuale, in capo al soggetto privato residuerebbe la qualifica di persona danneggiata dal reato.
Si tratta di una teorica, peraltro abbastanza diffusa, che tende a dilatare l'ambito del danno risarcibile e che vede svolgersi due diverse direttrici interpretative, entrambe conducenti al medesimo risultato dell'allargamento dell'ambito della risarcibilità, da un lato, attraverso la individuazione di categorie sempre più vaste di danno, comprendendovi il danno morale, il danno esistenziale ed altro. In ordine a tale categoria del danno risarcibile si dirà più avanti, anche sulla scorta dell'autorevolissimo insegnamento pervenuto dal Supremo Collegio a Sezioni Unite Civili con la pronunzia n. 26972 del 11/11/2008. Dall'altro lato, attraverso la elaborazione della figura, oltre che della persona offesa dal reato, del soggetto comunque danneggiato dal reato, che, in vista della tutela dei propri diritti, sarebbe legittimato all'esercizio dell'azione civile finalizzata al risarcimento del danno anche nelle ipotesi di delitti monoffensivi.
In tale ultimo ambito interpretativo si è addivenuti non soltanto ad individuare titolarità e legittimazione risarcitoria in capo ad enti esponenziali di interessi diffusi, ogni qual volta un elemento individualizzante abbia consentito di caratterizzare in una soggettività giuridica – o, comunque, in una associazione – la specifica tutela dell'interesse; ma anche ad ampliare la categoria dei legittimati al risarcimento mediante la individuazione della categoria del soggetto danneggiato dal reato.
Non spetta a questo decidente valutare la fondatezza ovvero la legittimità di tali operazioni ermeneutiche. Va riconosciuto, comunque, che la tendenza culturale ormai consolidata in campo civilistico è quella, anche in vista di una distribuzione del rischio connessa allo svolgimento di attività umane sempre più incisive nella vita di una pluralità di persone e potenzialmente idonee a ledere molteplici interessi, siano le dette attività di natura strettamente economica o meno, all'ampliamento delle categorie di danno risarcibile e delle categorie legittimate alla pretesa risarcitoria, anche in considerazione del fatto che il continuo intenso evolversi delle attività umane comporta, del pari dell'intensificarsi di contatti, la potenzialità del danno in capo a categorie sempre più diffuse ed in riguardo ad attività sempre in continuo ampliamento. Di talchè la categoria generale del danno aquiliano appare essere sempre in costante evoluzione, in vista della realizzazione, ottenuta mediante l'ampliamento delle categorie del danno risarcibile e dei soggetti legittimati al risarcimento, di una più equa e soddisfacente distribuzione del rischio di attività, che, assurto proprio il rischio a categoria economica proprio mediante il risarcimento, finisce con il divenire un criterio di adeguata compensazione dei sacrifici e di ottimale complessivo ristoro delle categorie lese, in una prospettiva di chiusura del sistema attenta a calibrare gli opposti interessi che vengono in rilievo e, per tale via, a ripristinare gli equilibri compromessi dal danno mediante il risarcimento, in una prospettiva complessivamente e definitivamente ripristinatoria.
Pertanto, il risarcimento del danno finisce con l'assurgere in ambito civilistico a categoria generale, idonea a realizzare quel definitivo ripristino del sistema compromesso dalla lesione. Ma per potersi ottenere un tale effetto, l'unico che giustifica la sanzione ottenuta anche mediante restituzione o risarcimento, occorre che la restituzione o il risarcimento siano azionati unicamente da chi ha subito il danno e sia ottenuto da chi l'interesse leso dalla lesione era preposto a tutelare. In altri termini, la legittimazione restitutoria o risarcitoria trova un limite alla sua articolazione unicamente nella esigenza di ottenere, attraverso le due dette categorie, quel ristoro dell'interesse leso in capo al soggetto preposto ed unicamente legittimato alla tutela dell'interesse medesimo. Ne consegue che nei reati in cui l'unico interesse protetto è quello dell'Ordine pubblico ovvero del corretto andamento della Pubblica Amministrazione, è unicamente in capo al soggetto preposto alla detta tutela, correlativamente – ma anche unicamente – leso dalla condotta contrastante, che può riconoscersi il danno e la legittimazione al suo risarcimento, non già in capo ad altre categorie di soggetti.
L'individuare nei delitti contro l'ordine pubblico, quale il delitto di associazione per delinquere, ovvero nei delitti contro la P.A., quale la corruzione, la persona offesa dal reato nella Organizzazione Statuale ovvero nella Pubblica Amministrazione, non consente la individuazione di altro soggetto diverso legittimato al risarcimento del danno. Tali reati identificano quale soggetto passivo del reato unicamente lo Stato-collettività, per quanto concerne la tutela dell'ordine pubblico, ma anche, per taluni specifici aspetti di cui si dirà, lo Stato-apparato, per quanto concerne il corretto andamento della P.A., e presuppongono la lesione alla sfera giuridica di tali soggettività, e non anche della persona fisica che per effetto delle lesione perpetrata in danno dello Stato subisca eventuali pregiudizi: ampliare la categoria del danno risarcibile e della conseguente legittimazione a soggettività diverse dallo Stato, equivarrebbe ad affermare che la organizzazione statuale, che per definizione è la somma degli interessi individuali ed è preposta alla tutela dei detti interessi, sia di per sé inefficace alla realizzazione della tutela. Con ciò stesso ponendosi in discussione il fondamento stesso dello Stato-collettività, dello Stato-comunità, dello Stato-apparato. Ne consegue che la individuazione all'atto della tipizzazione delle fattispecie di cui agli artt. 416 c.p. e 318/319/321/322/322 bis c.p. rispettivamente dell'Ordine pubblico e del corretto ed imparziale andamento della P.A. quale presupposto della incriminazione, in uno con l'oggetto della tutela, riconosce unicamente in capo allo Stato-collettività (e, per quanto si dirà, anche in parte allo Stato-apparato) la titolarità alla pretesa risarcitoria, in una unità di sistema che si realizza, in via ripristinatoria della lesione, per mezzo del risarcimento del danno in capo alla soggettività preposta alla tutela degli interessi sottesi alla incriminazione. Ed è – e non può non essere che – esclusivamente in tale prospettiva che il Supremo Collegio ha ammesso solo limitatamente al delitto di corruzione in atti giudiziari di cui all'art. 319 ter c.p., la qualifica di persona offesa e, quindi, la legittimazione alla costituzione di parte civile in capo al soggetto privato danneggiato dalla decisione giudiziaria frutto di accordo corruttivo, tutelando in tal caso la norma alla evidenza non soltanto l'interesse statuale al buon andamento ed alla imparzialità dell'azione giudiziaria, ma anche direttamente ed immediatamente l'interesse del privato a non vedersi, per effetto dell'atto corruttivo, soccombente in un giudizio, con conseguente immediata produzione di un danno diretto.
Pertanto, tutte le domande di costituzione di parte civile come articolate da soggettività private –siano esse persone fisiche o giuridiche – in riguardo ad eventuali lesioni di interessi con produzione di correlativo danno conseguenti alla contestazione del delitto di associazione per delinquere ovvero di corruzione vanno respinte.
Va ammessa la richiesta di costituzione di parte civile come articolata dalla Avvocatura Distrettuale per il soggetto pubblico, secondo le precisazioni che saranno di seguito svolte. Fin da questa sede può anticiparsi, rinviando la illustrazione dei motivi al prosieguo, che non può riconoscersi, in relazione al delitto di associazione per delinquere, la legittimazione alla costituzione di parte civile della Autorità Garante per il Mercato e la Concorrenza.
Appare opportuno svolgere una ulteriore considerazione in ordine alle pretese risarcitorie articolate dalle parti private in riferimento ai delitti di associazione per delinquere e corruzione. Si è detto che le parti private hanno assunto di essere persone comunque danneggiate dai detti reati. Si vedrà più avanti come si tratta di parti che già mutuano il loro diritto alla costituzione – salvo quanto sarà indicato per un numero limitato di parti che nell'atto costitutivo hanno omesso di fornire valide indicazioni sulla causa petendi – in diretto riferimento alle contestazioni condotte con riguardo ai reati di cui agli artt. 615 ter, 617 ter c.p., 326 c.p. in riferimento all'art. 167 D. Lvo 196/03. Nell'articolare la loro indicazione in riguardo alla categoria del "soggetto danneggiato dal reato", le dette parti hanno così sostenuto che in tanto tali condotte hanno potuto essere realizzate ed in tanto hanno avuto la portata degli episodi contestati nel procedimento, in quanto era stata costituita la ramificata articolazione criminale di cui al capo A), che ha ampliato le potenzialità offensiva dell'azione criminosa programmata. Inoltre, hanno indicato che le condotte corruttive sono ridondate in loro danno, individuandoli quali danneggiati dal reato, perché è proprio la condotta corruttiva che ha determinato la acquisizione e la divulgazione delle illecite informazioni contestate nel procedimento e, segnatamente, la esecuzione delle condotte riferite ai reati di cui agli artt. 615 ter, 617 ter c.p., 326 c.p. in riferimento all'art. 167 D. Lvo 196/03.
Ma a ben vedere l'area del danno dal quale le dette parti private si dolgono anche a seguito della esecuzione delle condotte riferite ai reati di associazione per delinquere e corruzione, ed alla quale hanno ancorato la loro qualifica di persone danneggiate dal reato, coincide specularmente con l'area del danno azionata in riguardo alle contestazioni elevate con riferimento alla violazione delle norme di cui agli artt. 615 ter, 617 ter c.p., 326 c.p./167 D. Lvo 196/03. Con la conseguenza che in caso di ammissione delle richieste di costituzione di p.c. anche per le fattispecie di associazione per delinquere e corruzione, si perverrebbe sostanzialmente ad una duplicazione di poste risarcitorie per le parti private. In altri e più chiari termini, si vuole indicare che il pregiudizio di cui le parti private si dolgono anche in riferimento ai delitti di associazione per delinquere e di corruzione ancorandovi la loro qualifica di soggetti danneggiati dal reato, coincide esattamente con il pregiudizio subito dalle medesime parti per i delitti di cui agli artt. 615 ter, 617 quater c.p., 326 c.p./167 D.Lvo n. 196/01, dolendosi le dette parti, invero, proprio – ed esclusivamente – di quelle illegittime intrusioni nei loro dati personali e di quelle diffusioni di dati personali – che riconnettono anche alla esecuzione del delitto di associazione per delinquere e del delitto di corruzione – che già costituisce l'essenza del danno delle condotte contestate con riguardo agli artt. 615 ter, 617 ter c.p., 326 c.p. / 167 D. Lvo 196/03, in riferimento alle quali risulta individuabile, come si vedrà più avanti, la loro specifica qualifica di persone offese dal reato.
In riguardo a nessuna diversa – e residua – lesione può specificarsi la produzione di un eventuale danno in capo alle parti private che assumono essere comunque danneggiate anche dei delitti di associazione per delinquere e corruzione. Pertanto non vi è chi non veda come l'area del danno lamentato sia già ampiamente azionata in vista del suo ristoro dalla costituzione per i delitti di cui agli artt. 615 ter, 617 ter c.p., 326 c.p. in riferimento all'art. 167 D. Lvo 196/03, senza che residui alcun ulteriore danno, interesse o lesione in capo alle parti private in conseguenza dei delitti di associazione per delinquere e corruzione, diverso da quello già azionato.
Quanto precede, affermato in riguardo duplicemente alla speculare coincidenza in concreto del danno dei delitti di cui agli artt. 615 ter, 617 ter c.p., 326 c.p. / 167 D. Lvo 196/03, con il pregiudizio lamentato anche per i delitti di cui agli artt. 416 c.p., ovvero 318, 319, 322 bis c.p. ed alle categorie riferite alla oggettività giuridica tutelata ed alla correlativa individuazione della persona offesa dai reati quale sopra delineata in via dogmatica, preclude l'esercizio dell'azione civile nel presente procedimento non soltanto nei confronti di quelle parti che hanno articolato la loro richiesta in riferimento a capi di imputazione per i quali effettivamente va individuata la loro qualifica di persone offese dal reato ed a capi che tale qualifica non consentono di individuare, ma anche in riguardo a quelle parti che, come si vedrà, pur potendo ancorare la propria legittimazione alla costituzione di parte civile in riferimento ad una delle fattispecie di cui agli artt. 615 ter, 617 ter c.p., 326 c.p. / 167 D. Lvo 196/03, come contestati ai capi 15-32 e 35 della rubrica, hanno inteso azionare, invece, solo pretesa risarcitoria in riguardo al delitto di associazione per delinquere ovvero al delitto di corruzione. In tali casi, pertanto, come sarà indicato successivamente, si perverrà alla totale esclusione della parte dalla azione civile nel presente procedimento penale.
Pertanto, anche sotto il profilo dell'elemento del concreto danno cagionato in capo a coloro tra le parti che hanno indicato di mutuare il loro diritto alla costituzione avuto riguardo alla categoria del soggetto comunque danneggiato dal reato, i detti delitti di associazione per delinquere e di corruzione contengono, in riguardo al pregiudizio concretamente cagionato, un quid pluris specializzante in punto di lesione, rispetto ai reati fine della associazione, ovvero rispetto alla oggettività tutelata dal delitto di corruzione, che fa capo esclusivamente alla Pubblica Amministrazione, e, nella specie allo Stato-collettività ed allo Stato-apparato. Il quid pluris è rappresentato proprio dalla tutela dell'ordine pubblico, nel delitto di associazione per delinquere, e dal corretto andamento e di imparzialità della azione della P.A., nel delitto di corruzione, alla cui tutela può essere preposto solo lo Stato, nelle due organizzazioni dello Stato-collettività e dello Stato-apparato.
L'elemento aggiuntivo specializzante fissato con riferimento all'oggetto della tutela, che individua, per tale via, la persona offesa dal reato, preclude, ad avviso del decidente, ogni forma di tutela e di azione in capo alla parte cui non fa capo il corrispondente interesse, non potendosi riconoscere quella tutela surrogatoria, quale eventualmente parte danneggiata dal reato, neppure nel caso di omessa indicazione tra le ragioni della domanda, della richiesta risarcitoria che avrebbe pur potuto essere fondatamente articolata.
Alle complessive considerazioni che precedono consegue ulteriormente il rigetto della richiesta di costituzione di parte civile come articolate dalle parti private non soltanto nei confronti degli imputati persone fisiche, ma anche nei confronti delle società imputate (rectius: responsabili ex art. 25 D. Lvo n. 231/2001), chiamate a rispondere del medesimo reato. Si rinvia al prosieguo, quando sarà affrontata la tematica in punto di legittimazione passiva alla azione civile nel procedimento penale da parte delle società, la illustrazione dei motivi di quanto immediatamente accennato in riguardo alle società chiamate nel procedimento a rispondere ai sensi dell'art. 25 D. Lvo n. 231/2001.
Considerazioni diverse valgono in riguardo alle contestazioni come articolate in riguardo alla fattispecie di rivelazione di segreti di ufficio di cui ai capi 15, 32 e 35 della rubrica ed alle richieste di costituzione di parte civile in relazione ai detti capi articolate dalle parti private. In linea astratta anche detto reato è un reato monoffensivo. In particolare, la giurisprudenza del Supremo Collegio ha costantemente indicato (al riguardo vedasi Sez. 6, sentenza n. 3598 del 12/10/1995 e Sez.. 6, ordinanza n. 2675 del 24/09/1998) che "nel reato di rivelazione e utilizzazione dei segreti di ufficio di cui all'art. 326 c.p. persona offesa è solo la pubblica amministrazione". Costantemente in punto di archiviazione del procedimento e mancato avviso alla persona offesa della richiesta di archiviazione del P.M., è stato affermato dal Supremo Collegio che è inammissibile il ricorso per cassazione di un privato avverso l'ordinanza di archiviazione del g.i.p. in ordine a tale reato, nel procedimento penale seguito a denuncia da parte dello stesso ricorrente.
Entrambe le due dette pronunzie sono però precedenti rispetto alla novella resa con D. Lvo 196/03, che ha introdotto il delitto di trattamento illecito dei dati all'art. 167, che così testualmente recita: "Salvo che il fatto costituisca piu' grave reato, chiunque, al fine di trarne per se' o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli articoli 18, 19, 23, 123, 126 e 130, ovvero in applicazione dell'articolo 129, e' punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da sei a diciotto mesi o, se il fatto consiste nella comunicazione o diffusione, con la reclusione da sei a ventiquattro mesi". Orbene, le fattispecie di cui all'art. 326 c.p. come contestate ai capi 15-32 e 35 contengono un sostanziale riferimento al trattamento di dati personali effettuato illecitamente in danno dei soggetti di cui alle varie pratiche indicate nelle imputazioni. In altri termini si tratta all'evidenza di contestazione elevata ai sensi dell'art. 326 c.p. unicamente perché la qualifica di coloro che sono stati indicati dal P.M. come autori della condotta (pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio) ha costituito quell'elemento specializzante che ha determinato la astratta integrazione della più grave fattispecie di cui all'art. 326 c.p., laddove la condo.....