IL RUOLO DEL PROFITTO NEL SISTEMA DELLA RESPONSABILITA' DEGLI ENTI - PRIMA PARTE - di Vincenzo Tutinelli, Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Milano
1. Premessa
Tra gli aspetti meno affrontati nei vari commenti al D. Lvo 231/01 vi è quello attinente alla valutazione dell'efficacia degli strumenti in essa previsti, al fine di eludere illeciti arricchimenti e al fine di individuare il profitto ottenuto dall'ente agente.
Un tema altrettanto negletto nella dottrina prevalente è quello della necessità di escludere che la persona giuridica – all'esito dell'accertamento giurisdizionale sulla propria responsabilità – si trovi a conservare l'utilità derivante da reato.
A tale osservazione potrebbe venire naturale rispondere che – una volta che l'ordinamento garantisca l'obbligatorietà della confisca del profitto del reato – non è possibile individuare alcuno spazio per una prospettazione problematica della questione.
L'esperienza comune sembra presentare una diversa realtà. Sia per le difficoltà oggettive connesse alla concreta valutazione del profitto da reato quando questo sia desumibile solo all'esito di una valutazione economica dell'operazione considerata nella sua interezza.
Tale tematica assume una pregnanza particolare quando si verta in materia di responsabilità degli enti.
Infatti, l'estensione agli enti a qualsiasi titolo di una responsabilità in qualche modo ricollegantesi a reato, non può non considerare la finalità di tali organizzazioni. E non può non sfuggire il fatto che la quasi totalità delle strutture che nella attuazione concreta sono venute e verranno in considerazione sono enti a fine di lucro.
Se allora il fine di lucro è il carattere distintivo tipico dei soggetti nei cui confronti la responsabilità viene estesa, il profitto da reato (e la sanzionabilità nonché – come vedremo in seguito –l' effettiva confiscabilità dello stesso) viene ad essere una tematica centrale che si pone nella valutazione e nella interpretazione dell'intervento normativo de quo.
2. I rapporti tra responsabilità personale e responsabilità dell'organizzazione
L'ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti in posizione apicale (c.d. Soggetti sottoposti all'altrui direzione; art. 5, comma 1, lett. b), D.Lgs. 231/2001). L'organizzazione stessa non risponde, per espressa previsione legislativa (art. 5, comma 2, D.Lgs. 231/2001), se le persone indicate hanno agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi; comunque è prevista un'attenuazione della sanzione pecuniaria per il caso in cui "l'autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio e l'impresa non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricevuto vantaggio minimo".
Già l'enunciazione dei criteri di imputazione all'ente delle condotte dei suoi appartenenti, sembra imporre la necessità di valutare se la dizione "interesse o vantaggio" debba essere interpretata nel senso che in tutti i casi debba potersi individuare un vantaggio dell'ente sub specie di profitto.
In particolare, duplici sono le posizioni dottrinali. Da una parte chi propende per una totale equivalenza dei due termini in questione.
Dall'altra chi si pone in un'ottica diversa, affermando che il criterio del vantaggio avrebbe solo un valore sintomatico ex post dell'avvenuto perseguimento dell'interesse della persona giuridica .
La questione è di non poco momento, visto che potrebbe portare a una vera e propria interpretatio abrogans dell'intero sistema sanzionatorio. Infatti, ove si ritenesse necessario individuare un vantaggio patrimoniale effettivo e immediatamente individuabile in ogni occasione in cui un reato sia compiuto da appartenente ad una struttura imprenditoriale, si finirebbe per far gravare sui titolari delle indagini un onere assolutamente sproporzionato rispetto alle possibilità e alle necessità di indagine e di accertamento.
Sproporzionato rispetto alle possibilità di indagine, perché la logica dei singoli atti di una organizzazione complessa (che spesso si articola in più soggetti aventi distinta personalità giuridica finanche di nazionalità diverse) nella massima parte dei casi implica una conoscenza completa dei meccanismi esterni ed interni dell'ente e dell'atteggiarsi concreto degli interessi patrimoniali dello stesso in un'ottica di ampio raggio; conoscenza che diventa tanto più impossibile quanto più è complessa l'organizzazione dell'ente.
Sotto questo aspetto, non appaiono condivisibili le contestazioni di chi afferma che "Se la nozione di vantaggio e di interesse viene ampliata sino a comprendere anche un effetto indiretto, potenziale o mediato, anche non patrimoniale, come, ad esempio, un vantaggio di immagine o di ritorno nell'opinione pubblica, si rischia di ricadere in una giurisprudenza "creativa" in cui la certezza del diritto rischia di essere solamente un principio svuotato di ogni contenuto." non appaiono condivisibili. In particolare, proprio la esclusione di ogni effetto meramente perseguito o soltanto potenziale verrebbe a sancire nella massima parte dei casi la non punibilità di qualsivoglia organizzazione complessa.
Sproporzionato rispetto alle necessità di accertamento perché – a fronte della commissione di un illecito attinente allo svolgimento dell'attività di impresa o comunque connesso all'attività di enti collettivi – non appare nemmeno necessario andare a specificare come l'organizzazione sia riuscita a fare propri gli utili derivanti da reato. E ciò soprattutto quando all'illecito abbiano partecipato soggetti in posizione apicale nella organizzazione collettiva.
E' difficile enucleare il criterio seguito dalla Cassazione. In una recente pronuncia, forse quella che affronta in maniera più analitica la vicenda , la Corte afferma che - nella ratio ispiratrice della profonda innovazione introdotta dalla L. n. 231 del 2001 - l'ente collettivo è considerato il vero istigatore, esecutore o beneficiario della condotta criminosa materialmente commessa dalla persona fisica in esso inserita; che, seppure si debba considerare la responsabili.....