I REATI SOCIETARI COME PRESUPPOSTO DELLA RESPONSABILITA' AMMINISTRATIVA DELLA SOCIETA': ASPETTI COMUNI E DIFFERENZE RISPETTO ALLA DISCIPLINA FONDAMENTALE DEL D.IVO 231/01 di Giacomo Stalla, magistrato - Relazione tenuta all’incontro di studi organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura in Roma l’11 marzo 2005
Sommario:
eliminazione del requisito del "vantaggio" dell'ente
ed accertamento in concreto dell'interesse della società
- soggetti responsabili del reato presupposto - in particolare,
i sindaci e le nuove figure apicali di gestione - l'esercizio
di fatto delle funzioni apicali - criterio di imputazione soggettiva:
modelli di organizzazione, organismo di vigilanza e codici di
comportamento - trattamento sanzionatorio: sanzioni pecuniarie,
confisca, misure cautelari - procedibilità ed estinzione
dell'illecito.
1.
Nell'introdurre l'art. 25 ter del d.lvo 231/01, l'art.
3 del d.lvo 61/02 non si limita ad integrare, aggiungendo puramente
e semplicemente il rinvio agli illeciti societari, il novero dei
reati-presupposto della responsabilità dell'ente.
Diversamente da quanto operato dagli artt. 25 bis (concernente
la falsità in monete, carte di pubblico credito e valori
di bollo), 25 quater (delitti di terrorismo ed eversione), e 25
quinquies (delitti contro la personalità individuale),
l'art. 25 ter "riscrive" interamente il criterio
oggettivo di imputazione della responsabilità amministrativa
dell'ente ed individua diversamente i soggetti-autori dei
reati-presupposto, con ciò discostandosi dalla corrispondente
previsione-base dell'art. 5 d.lvo 231/01.
L'art. 5 stabilisce che:
"1.
L'ente è responsabile per i reati commessi nel suo
interesse o a suo vantaggio:
a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione
o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa
dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da
persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo
dello stesso;
b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno
dei soggetti di cui alla lettera a).
2. L'ente non risponde se le persone indicate nel comma
1 hanno agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi."
L'art.
25 ter stabilisce invece che:
"In
relazione ai reati in materia societaria previsti dal codice civile,
se commessi nell'interesse della società, da amministratori,
direttori generali o liquidatori o da persone sottoposte alla
loro vigilanza (…)"
2.
La prima diversità riguarda l'eliminazione del requisito
del "vantaggio" dell'ente.
La formulazione dell'art. 5 suscita qualche dubbio interpretativo;
non tanto perché ai due concetti di interesse e vantaggio
non possano attribuirsi significati logici e normativi diversi
ed autonomi (in ottica finalistica, e dunque ex ante, il primo;
in ottica di risultato, e dunque ex post, il secondo), quanto
perché l'estremo rigore costituito dall'alternatività
dei due elementi finisce per sminuirsi non poco (se non per svuotarsi
del tutto) alla luce del 2^ co., nel quale si stabilisce che la
responsabilità dell'ente è comunque esclusa
se il soggetto ha commesso il reato-presupposto "nell'interesse
esclusivo proprio o di terzi". Ciò significa che,
in tali casi, si scinde quella cointeressenza fondata sul rapporto
organico che giustifica la riferibilità indiretta all'ente
della responsabilità individuale. In concreto, ciò
comporta che, pur in presenza di un vantaggio per l'ente,
questo non risponde se il reato è stato commesso per un
interesse esclusivo dell'agente-persona fisica (o di un
terzo diverso dall'ente stesso).
Ciò posto, può sostenersi che l'obliterazione
nell'art. 25 ter del requisito del "vantaggio"
si ponga l'obiettivo non tanto di derogare alla previsione
generale, quanto di razionalizzarla, concentrando la propagazione
della responsabilità alla società sulla nozione
di interesse di questa. Pertanto, la società risponde –
indipendentemente dal conseguimento di un vantaggio – se
il reato è stato commesso nel suo interesse. La responsabilità
sussiste non solo nel caso di interesse esclusivo della società,
ma anche di concomitanza dell'interesse di questa con quello
del soggetto-agente, ovvero di terzi; essa invece non sussiste,
in armonia con il 2^ co. dell'art. 5, in presenza di un
interesse extrasociale esclusivo ed assorbente
3.
In pratica, non sarà sempre agevole – per il pubblico
ministero – dimostrare che il reato societario è
stato realizzato nell'interesse della società. Va
intanto osservato che una prima "scrematura" dei reati
societari rilevanti al fine di fondare la responsabilità
amministrativa della società è operata dallo stesso
legislatore del d.lvo 61/02 il quale ha appositamente escluso
taluni reati che non solo non possono essere commessi nell'interesse
della società, ma che per loro natura vengono necessariamente
commessi in danno di questa (la quale assume la veste di parte
offesa); è il caso delle infedeltà patrimoniali
poste in essere dagli amministratori (e dagli altri soggetti equiparati)
in conflitto di interessi e con intenzionalità di danno
sociale (artt. 2634 e 2635 cod. civ.).
Per altri reati, viceversa contemplati dall'art. 25 ter,
la configurabilità di un interesse sociale appare puramente
teorica, perché si tratta di condotte normalmente ispirate
dall'obiettivo di illecitamente favorire non certo la società
in quanto tale (che ne risulta, anzi, per lo più danneggiata
nell'integrità del capitale o del patrimonio) ma
soci determinati. E' il caso, ad esempio, del reato di indebita
restituzione dei conferimenti (art. 2626 cod. civ.), di indebita
ripartizione dei beni sociali da parte dei liquidatori (art. 2633
cod. civ.), ed anche di formazione fittizia del capitale sociale
(art. 2632 cod. civ.).
Per altri reati ancora, come il falso in prospetto (art. 2623
cod. civ.), l'impedito controllo in danno dei soci (art.
2625 2^ co. cod. civ.) o l'aggiotaggio (art. 2637 cod. civ.),
l'interesse della società può invece configurarsi,
ancorché questo sia destinato ad assumere, il più
delle volte, un ruolo secondario rispetto all'obiettivo
– disinformativo o speculativo – personale dell'agente.
Quanto al reato di false comunicazioni sociali di cui agli artt.
2621 e 2622 cod. civ., il fatto che uno degli elementi costitutivi
dell'incriminazione sia rappresentata "dall'intenzione
di ingannare i soci o il pubblico" e dal "fine di
conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto"
non vale di per sé ad eliminare la possibile sussistenza
di un esclusivo o concomitante interesse della società.
Né questo è escluso nell'ipotesi in cui il
falso abbia "cagionato un danno patrimoniale ai soci"
(art. 2622 cod. civ.), stante l'autonoma soggettività
giuridico-patrimoniale propria delle società di capitali.
Tale interesse dovrà tuttavia essere attentamente valutato
caso per caso, tenendo presente, da un lato, che il conseguimento
finale di un vantaggio in capo alla società, pur potendo
assumere portata indiziaria, può non essere dirimente in
tal senso e che, dall'altro, l'interesse sociale può
– in linea di principio - ravvisarsi tanto nel falso in
bilancio di società in bonis, quanto in quello di società
in condizioni di sofferenza economico-finanziaria.
La plurioffensività del reato e l'eterogeneità
dei "moventi" che lo possono ispirare inducono a distinguere
le false comunicazioni sociali commesse nell'ambito di una
sia pur malintesa e scorretta "politica aziendale"
(ad es., l'occultamento di una parte di utili in vista di
una strategia espansiva negli esercizi successivi, la costituzione
di riserve occulte con le quali corruttivamente procacciare nuove
commesse alla società, l'alterazione del risultato
di esercizio al fine di ottenere la ricapitalizzazione da parte
di altre società del gruppo di appartenenza, il contenimento
fittizio delle perdite al fine di conseguire ulteriore credito
presso il sistema bancario e consentire in tal maniera la prosecuzione
dell'attività sociale ecc…), da quelle viceversa
ispirate da obiettivi squisitamente personali dell'agente
e pregiudizievoli all'interesse, oltre che dei creditori,
anche della società in quanto tale (emblematiche di ciò
sono quelle falsità preordinate a nascondere ammanchi,
distrazioni o anche soltanto gravi errori gestionali).
4.
La seconda diversità nella formulazione legislativa concerne
l'individuazione dei soggetti responsabili del reato-presupposto.
L'art. 25 ter tiene ferma la bipartizione fondamentale dell'art.
5 tra soggetti "apicali" e "sottoposti"
(posta a sua volta a fondamento di un diverso regime di imputazione
della responsabilità dell'ente). Tale bipartizione
viene però circoscritta ad amministratori, direttori generali
e liquidatori (corrispondenti a figure di vertice aziendale) da
un lato, ed a tutti coloro che siano soggetti alla loro vigilanza,
dall'altro. Si tratta di una specificazione imposta dalla
considerazione che buona parte dei reati societari idonei a far
scattare la responsabilità amministrativa dell'ente
sono reati "propri", appunto, di amministratori, direttori
generali e liquidatori (indebita restituzione dei conferimenti,
illegale ripartizione di utili, formazione fittizia del capitale
ecc…). Così, il reato di falso in bilancio sussiste
se venga commesso da uno di questi soggetti qualificati; se, come
pure potrebbe ipotizzarsi, l'elemento di falsità
contabile confluito nel bilancio sia frutto dell'operato
esclusivo (sia pure doloso) di un soggetto non apicale, ad esempio
il responsabile della contabilità piuttosto che dell'ufficio
legale interno alla società, non può esservi reato-presupposto
e, conseguentemente, non può esservi responsabilità
dell'ente. Ciò non vale, naturalmente, in tutte quelle
ipotesi (per la verità di gran lunga prevalenti) nelle
quali il sottoposto sia compartecipe del reato commesso dall'
intraneus; poiché, in tal caso, la responsabilità
dell'ente si fonda sulla responsabilità individuale
per il reato-presupposto accertata in base ai principi ordinari
del concorso di persone nel reato.
In questa prospettiva, pertanto, la rilevanza della categoria
dei "sottoposti" alla vigilanza degli apicali non
può che essere residualmente limitata ai reati societari
"comuni" (come il falso in prospetto, l'illecita
influenza sull'assemblea, l'aggiotaggio); in tal caso,
il pubblico ministero dovrà dimostrare non soltanto la
commissione del reato, ma anche la subalternità dell'autore
(che può essere organico alla società, ma anche
esterno a questa) alla funzione di vigilanza del soggetto apicale.
5.
A ben vedere, però, nell'individuazione soggettiva
dell'art. 25 ter spiccano alcuni "grandi assenti".
Non vengono menzionati, in primo luogo, i sindaci che –
pure – rientrano tra i soggetti ai quali può venire
ascritto il reato societario "proprio". L'esclusione
è radicale, nel senso che non vengono ricompresi tra i
soggetti "apicali", né potrebbero per loro
natura e veste "istituzionale" venire ricompresi tra
i soggetti sott'ordinati agli apicali. Ci si trova di fronte
ad una scelta non tecnica, ma di politica legislativa, fondata
sulla considerazione che i sindaci, in quanto svincolati da un
vero e proprio rapporto di immedesimazione organica, non formerebbero
né esprimerebbero – nemmeno quando commettono dei
reati nell'interess.....
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