Lobbying e 231: dalla subcultura del clientelismo alla cultura della trasparenza
Nel nostro Paese, il cd. lobbismo, inteso come attività dei gruppi organizzati o dei loro rappresentanti volte a influenzare le decisioni pubbliche, è fenomeno estremamente diffuso ma, al tempo stesso, poco approfondito a livello «scientifico».
La mancanza di trasparenza nel processo decisionale e su chi lo influenza ha fatto sì che nell'immaginario collettivo lobbying e corruzione appaiono come sinonimi. Questo anche grazie ai mezzi di informazione, che certamente hanno contribuito a costruire l'immagine del lobbista associandolo al faccendiere o trattando del lobbying sempre in connessione a scandali di corruzione.
Per fronteggiare il fenomeno radicato e diffuso del cosiddetto lobbismo, il legislatore ha inteso sanzionare, con l'introduzione dell'art. 346 bis c.p., il trading in influence in assenza di una normativa disciplinante il fenomeno del cd. lobbying.
Non è la prima volta, del resto (è accaduto anche con la riforma del diritto societario, entrata in vigore dopo quella degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali), che si fa precedere la criminalizzazione alla «normazione» del fenomeno. Si conclude evidenziando come la circostanza che si sia ritenuto di non includere l'art. 346 bis c.p. nel «catalogo» dei reati generanti responsabilità amministrativa a carico dell'Ente non si traduca nell'irrilevanza della gestione del relativo rischio nell'ambito del Modello organizzativo, costituendo quelle contemplate dal suddetto articolo condotte prodromiche a quelle corruttive.
di Antonio Salvatore
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