La progressiva estensione del concetto di profitto del reato quale oggetto della confisca per equivalente
La generale ipotesi di confisca di cui all'art. 240 c.p. nell'individuare l'oggetto dell'intervento ablativo ricorre a tre distinte categorie: il profitto derivante dal reato, il prodotto del reato ed i beni utilizzati per la commissione del reato stesso.
Con l'introduzione della confisca “di valore” o “per equivalente” si pone un problema di determinazione dell'entità del sacrificio patrimoniale da imporre al reo: confiscato non è più il bene direttamente proveniente da reato quanto una somma di denaro o beni a questo corrispondente.
La Cassazione, in una pronuncia del luglio 2008, ha preso le distanze dalla dicotomia “profitto netto”/“profitto lordo” per privilegiare una distinzione fondata sulla natura lecita o illecita dell'attività svolta dall'ente: se è vero che sarebbe suscettibile di confisca il “profitto lordo” scaturente dal reato, è altrettanto innegabile che un tale profitto affiori, spesso, dall'intreccio tra atti d'impresa leciti ed atti che, invece, risultano contaminati da profili di illiceità.
Pertanto, in presenza di “reati contratto” il quantum suscettibile di confisca abbraccerà l'intero “spostamento patrimoniale” innescato dal reato, mentre per i“reati in contratto” a fungere da parametro applicativo della confisca di valore dovrebbe essere il “profitto netto” scaturente dal reato. Si ha pertanto punto di equilibrio che rinserra l'istituto della confisca attorno al perno della derivazione del profitto dal reato, che dispiega la sua funzione orientativa anche laddove ad essere applicata sia la confisca per equivalente, atteso che il valore di tale “equivalente” dovrà comunque essere pari a “quel” profitto derivante dal reato.
di Andrea Perini
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